Riprendi a scrivere.
Che l’intervallo, tra l’ultima parola scritta e quella nuova, è tale da
rendere necessaria la ricerca di un filo. Che congiunga il vecchio al
nuovo.
E parla, ancora, di loro.
L’uomo che chiameremo D. e la donna.
Che chiameremo S.
Tutto comincia quel giorno. In cui finalmente c’è un sole così caldo che
rende impossibile essere tristi. E allora, dalla stanza buia in cui è
seduto, D. chiama S.
Che lo raggiunga nella stanza dove, in poltrona, lui ascolta, nel buio
più totale, assorto e rapito, il Flauto Magico. Arriva, lei, ancora
avvolta nell’accappatoio bianco, con i capelli bagnati raccolti in un
asciugamano. In foggia di turbante improvvisato.
E le propone, uscendo dall’ascolto rapito, un viaggio.
Ed è così che nel mattino, ancora presto, tre giorni dopo, lei l’aiuta a
salire su un treno.
Sono arrivati in stazione molto presto rispetto all’orario del treno
scelto, perché il taxi l’aveva prenotato lui e come sempre, ansioso,
aveva finito col farlo arrivare troppo in anticipo sul loro orario.
Così lei lo invita ad aspettarlo lì, vicino all’edicola, in stazione.
“C’è tempo per prendere da leggere e da fumare” gli dice sorridendo e
sfilano il braccio a sotto il suo.
E va a prendere da bere, acqua, un giornale di moda da sfogliare in
treno, un pacchetto di sigarette per lui che dalla sera prima ne è
rimasto senza e se non ne ha diventa così nervoso.
L’uomo dietro il bancone del piccolo chiosco, semi nascosto dal vetro
divisorio, ha occhi attenti sulle forme della donna che paga i suoi
acquisti.
La gonna è corta sulle gambe snelle, la camicetta abbottonata fino al
penultimo bottone e appena semi nascosta dalla giacca sportiva aperta
che le lascia il seno scoperto. Si intuisce che non indossi nulla, sotto
la camicia, dalle protuberanze simmetriche, al culmine delle coppe, dei
capezzoli nascosti, a fare gioco di rilievo e piccole ombre alla luce
dell’insegna, accesa notte e giorno sotto il salone della stazione.
Segue S. allontanarsi, nessun altro cliente in coda a sollecitarlo e
distrarlo, finchè, incollato alla curva dei fianchi alti e del culo
plastico ad ogni suo passo, la vede avvicinarsi all’uomo con gli
occhiali scuri.
La vede rivolgergli la parola, ma delle parole a lui non arriva nulla, a
quella distanza.
Poi vede lei baciarlo, le labbra sulle labbra, in punta di bacio, solo
sfiorandolo, con gesto che rivela consuetudine e affetto.
Poi passare una mano sotto il braccio dell’uomo, e aiutarlo, lui
dapprima incerto, a incamminarsi verso il binario 4. Guidarlo
affiancando due gambe più sicure alle sue, unificando il passo,
scansando e rallentando, lei per lui, ostacoli di carrelli e passeggeri,
rari, fermi in mezzo.
E pensa a come la natura e la vita siano strane, quel corpo di donna
così giovane e così bello su cui lui ha perso gli occhi e quell’uomo
cieco, a cui è avvinghiata e guida, che non può nemmeno vederlo. O forse
lo vedrà con le sue mani, l’olfatto, il tatto, il gusto delle labbra e
della lingua, perché dicono che ai ciechi per compensazione la natura
acuisca ogni altro senso. Pensa, guardandoli allontanare.
S. aiuta D. a salire i gradini, poi a percorrere il corridoio del treno,
in cerca di due posti.
Lui in mano ha un bastone sottile, telescopico, bianco, ma sembra più
portarlo a spasso per abitudine che non aiutarsi anche con quello. Lei
sicuramente sa guidarlo al buio molto meglio di un bastoncino bianco.
Il vagone è di quelli antichi quasi, o almeno di quelli abbastanza
vecchi da essere ancora divisi in scompartimenti. Non quelle specie di
interminabili tram a lunga percorrenza che tagliano l’Italia in poche
ore, con un'unica serie di sedili fronteggianti a serie di quattro, in
un unico vagone, senza stanze.
Alle pareti, sopra i vecchi sedili di velluto stinto, le fotografie di
un’Italia che sa di dopoguerra, o di intervalli televisivi degli anni
sessanta.
Il Duomo di Molfetta.
Vista del borgo antico di Radicofani.
Bari. Il porto vecchio.
Il treno ha uno scossone improvviso. Come se si assestasse meglio mezzo
metro avanti, dopo essere scivolato per un brevissimo percorso
lentissimo, sui binari.
D. inciampa alla scossa inattesa, e la mano perde l’appiglio al braccio
di S. La mano scivola sul fianco di lei, cerca un appiglio, trova la
gonna, che sotto la spinta della sua caduta le è risalita al fianco.
La calza nuda e la fine della coscia. Nel suo percorso, la mano scivola
ancora, senza necessità di farlo, lì sotto. E raggiunge il sesso nudo
che per un attimo riesce a sfiorare con le dita..
S. gli ha obbedito, ha assecondato la sua richiesta e non indossa intimo
sotto, constata sorridendo.
Carezza la coscia nuda, scivola, rassicurato dall’immobilità del treno
fin sulle natiche sotto la gonna.
“Bastardo, non hai nemmeno idea di cosa io senta ad ogni passo o quando
devo chinarmi..”
Ridendo. Poi, mentre arrivano due viaggiatori in senso opposto lungo il
corridoio del vagone, lei si ricompone. Senza fretta.
Abbassa l’orlo della gonna e guida la mano umida di D. prendendola nella
sua, ancora ad aggrapparsi sotto il suo braccio.
Nell’incrocio con i due che sopraggiungono D. e S. debbono posarsi
entrambi con la schiena contro il lato finestrino.
La donna grassa sopraggiunta al passaggio fa fatica, e sfrega il seno
contro il petto di D. prima e poi di S. stessa. Mettendosi anche lei,
per quanto le consentono le forme eccessive, con la schiena contro la
parete degli scompartimenti, quella opposta a loro, passando.
Il ragazzo che la segue, avrà si e no diciotto anni, probabilmente è il
figlio, prima fissa incuriosito e in modo un po’ irrispettosamente
insistente l’uomo col bastone bianco e la bella donna cui da la mano il
cieco, poi, benchè sia molto più magro della madre, passando, finisce
con lo sfregarsi contro il seno di S, forse anche troppo insistentemente
con il suo petto. La donna grassa ha pure rallentato il passo per aprire
la porta di comunicazione del vagone e così il contatto frontale tra S.
e il ragazzo, per nulla timido o timoroso si prolunga oltre misura. S.
sente la pressione dopo quella del petto contro il seno anche del ventre
del ragazzo contro il suo, quest’ultima senz’altro non necessaria o
inevitabile per lui.
Contro il suo ventre ne avverte la pressione. Ne legge la provocazione
prendere confidenza in un attimo e farsi dura, stretta tra di loro.
Ma non si fa per questo lei più sottile, né si sottrae al contatto.
Stringe solo più forte la mano di D. mentre sente l’intruso celato dal
tessuto spingere e delinearsi sul suo ventre,
Poi, come è cominciato, cessa senza ragione l’attimo di quell’incrocio,
la madre chiama il figlio, e proseguono nel corridoio, allontanandosi da
loro. Il treno non ha posti prenotati, ed è mezzo pieno.
La donna aiuta l‘uomo col bastone ad entrare nello scompartimento
miracolosamente quasi vuoto, lo guida al sedile, quello centrale, e gli
si siede accanto.
Vicino al finestrino c’è una coppia.
Seduta sui sedili fronteggianti. Anziani. Sembrano persino stanchi.
Sopra il sedile di D. una veduta di Molfetta, sopra quello di S., il
Monte Bianco. Le foto di bachelite sono così vecchie da avere solo toni
ocra.
Poi finalmente il treno parte.
D. sembra che dorma. Di certo dormono l’uomo che ha di fianco e la donna
che siede di fronte all’uomo, forse la moglie, separati tra loro solo
dal tavolinetto marroncino. Coperto dalla borsetta, enorme quasi, di lei
e da una copia malripiegata della Gazzetta. Dormono da quando il treno
ha lasciato la stazione, da circa una mezz’ora, cullati dall’età stanca
e dal rollio dei vagoni ad ogni passaggio sulle traversine di legno.
Il treno corre lento e scorrono al finestrino campi, paesi che man mano
sono sempre più piccoli di quelli appena passati in precedenza. In mezzo
al nulla, rallenta.
Al rallentare la donna anziana crolla la testa e subito si risistema
senza svegliarsi.
D. è sveglio adesso e posa una mano sulla gamba di S. che sta leggendo
distrattamente di attori e cantanti. E di modelli delle sfilate più
recenti. Fa scivolare la mano.
Lungo la coscia, tanto i due anziani stanno dormendo, lo sente dal
respiro inconfondibile, rumoroso e lento. Lui sa leggere e vedere, con
le orecchie, da tempo.
S. non accenna alcun movimento ma si lascia scivolare un poco in avanti,
quasi ad incoraggiarlo o fargli almeno più comoda la via. La gonna al
suo movimento diventa più morbida sulle cosce, più aperta, accogliente e
larga. E alta.
La mano di D. ora sale lungo la coscia, si ingrotta sotto l’orlo ella
gonna, ora anche la gonfia con il polso.
Sale. E con lei la gonna sembra un lenzuolo teso sul letto sotto cui si
sia infilato un gatto.
Le dita sono alle labbra, sotto la gonna, adesso. S. allarga, fin dove
l’orlo e il giro tessuto lo permettono, le cosce.
Le dita si stanno bagnando assai velocemente.
Nel corridoio passano due viaggiatori ma devono avere già i loro posti
avanti, perché non guardano nello scompartimento alla ricerca di sedili
liberi.
D. ha l’indice e il medio tra le labbra di S. adesso. Piegati, il polso
torto, la frugano appena dentro le labbra, dove la carne si fa mucosa
fradicia così in fretta quando lui la tocca. Godendosi il crescere
dell’eccitazione della sua donna immobile, quasi fingesse di essere
assente.
Lei finge di leggere, anche se nessuno la sta guardando. Trattiene il
fiato per non far rumore.
E sembra assorta davvero nel giornale di cui nemmeno guarda più le foto,
adesso.
Solo il labbro inferiore, stretto tra i denti, a frenare il rantolo che
libererebbe, volentieri, al muoversi incessante, alternato e sempre più
veloce e deciso, delle dita nella fica e sull’orlo delle labbra, fuori e
poi dentro, tradisce il suo stato di eccitazione tangibile.
D. sfila la mano lasciandole la gonna sollevata come una tenda sulle
cosce. Larghe.
Porta la mano al viso, annusa le dita e riconosce l’odore che ama così
tanto. Le sfrega, indice, medio e pollice. Per liberarlo meglio, in dono
alle sue narici attente.
Poi lecca l’indice, lucidandolo tra lingua e labbra. Mangia il sapore
della fica.
In quel momento il treno riparte dalla sua prima sosta. Dalla piccola
stazione di paese, dove si era fermato, durante la furtiva rapina delle
dita di D., sotto la gonna.
E’ allora che l’uomo in jeans e maglione a collo alto, giovane, col
borsone nero, entra nello scompartimento.
Si guarda intorno.
Non parla e non saluta, probabilmente i quei passeggeri già presenti ha
anche fastidio. Porta un borsone nero di pelle, per le due maniglie,
senza marchio o griffe, solo una esse a rilievo goffrata sulla nappa,
sopra la chiusura di una tasca laterale.
Guarda senza apparente attenzione l’uomo e la donna che dormono al
finestrino, poi l’uomo che dorme stringendo il suo sottile bastone
bianco tra le mani e la giovane donna seduta al suo fianco. Che è
davvero molto bella, con la gonna un poco accartocciata sotto un
giornale che tiene aperto sulle ginocchia, tenuto da una mano. E l’altra
mano posata con familiarità sul ginocchio del cieco.
Senza apparente fatica solleva il borsone e lo posa sulla cappelliera
sopra il sedile fronteggiante la donna che legge, lasciando un posto,
libero, solo tra lui e l’anziana che dorme con la bocca socchiusa e il
respiro rumoroso, e gli sembra quasi fastidiosamente vecchia.
Poi si siede, i jeans si tendono alle cosce muscolose e stende le gambe
troppo lunghe, evitando solo di urtare S., che pare così assorta alla
lettura quasi da non averlo notato neppure.
Se potesse vedere gli occhi di S., ora nascosti dietro il giornale che
ha sollevato al viso per leggere qualcosa di scritto troppo in piccolo,
vedrebbe però che lei sorride. E si stupirebbe forse anche di quel
sorriso e del lampo che cela a malapena.
Sono scomodi i sedili dei vecchi treni.
Troppi anni d’uso ne hanno ridotto l’elasticità al minimo, tornano gonfi
solo la notte, quando in stazione il treno riposa. Poi, poche decine di
minuti e il peso dei viaggiatori e perdono ogni gonfiore del loro
velluto sbiadito. E rivelano lo scheletro che celano nascosto,
inclemente, fatto di rigide stecche in acciaio tenute da bulloni e viti.
Ed è così che il ragazzo dalla dolcevita nera poco dopo, sul sedile, si
agita.
S. seduta davanti a lui, dietro il suo giornale, cerca anch’essa una
posizione più comoda. Sembra terribilmente assorta in qualcosa di così
interessante, e indifferente all’uomo che si muove cercando di sentire
meno duro dove siede.
S. scivola un poco cercando di stare più comoda, e l’uomo coglie un
lampo di calze. E l’ombra della pelle dove terminano e si nascondono
ancora. Lei non deve essersene nemmeno accorta, pensa, guardandola
nuovamente, questa volta volutamente e non per caso, perché non si
ricompone. Nel movimento asincrono dei due, ora la scarpa dell’uomo
poggia a destra contro quella di lei, al suo esterno.
Nessuno dei due muove la sua.
Pensa che lei così assorta non si sia nemmeno accorta che a toccare il
suo piede non sia la porta dello scompartimento ma un altro piede, il
suo. E anche quando il piede di lei comincia a ondeggiare lento, lui non
osa spostare il suo, quasi temendo che a toglierlo lei possa accorgersi
ad un tratto che cosa sia la cosa contro cui ora sfrega. E possa
smettere imbarazzata. O imbarazzandolo.
O infastidita. Mettendolo a disagio.
Guarda invece l’uomo con gli occhiali scuri seduto a fianco di lei,
quasi avesse timore che dietro gli occhiali scuri e il bastone bianco,
pur dormendo, e quindi due volte senza luce agli occhi, potesse vedere
che ora anche lui, impercettibilmente quasi, muove il piede. Su una
musica misteriosa.
Non può non essersene accorta, si ripete, ancora però pieno di
incertezze e dubbi.
Ma osa.
Spinge col piede, dapprima lentamente e quasi in un crescendo
impercettibile, fino a fare della pressione qualcosa di finalmente
inequivocabile, superando la paura. Non può non essersene accorta.
Ora ne è sicuro.
La caviglia tocca la caviglia.
Controlla l’uomo cieco e poi sposta il piede. Quello di lei, non più
sostenuto dall’antagonista cui poggiava, flette all’esterno. Lui
ricomincia l’assedio allora dall’altro lato, all’interno.
Spinge con calma, lei è nascosta dal giornale, ma il piede sotto la
pressione del suo si sposta al suolo. Verso la porta dello
scompartimento, allargando le ginocchia nel farsi trascinare.
Ora la vista dell’orlo delle calze e della pelle sotto a gonna, scura
nell’ombra del tessuto è netta. La donna potrebbe accostare l‘altra
gamba, muovere l’altro piede, chiudere la via al suo sguardo in un
attimo solo. Ma non lo fa.
Con l’aria di volersi accomodare meglio scivola un poco ancora su
sedile, e così le sale la gonna ancora. Ora il ragazzo si accorge per la
prima volta che sotto la gonna la donna è nuda.
Poi, senza distogliersi dalla sua lettura, lei solleva e raddrizza la
caviglia. Scivolata così poggia il polpaccio contro quello dello
sconosciuto, il contatto corre tra loro dalla caviglia al ginocchio.
Nessuno dei due si ritrae in alcun modo.
Lui prende coraggio. Sfrega la gamba dei pantaloni contro le calze di
lei, che si fa eco e risponde senza fretta ma anche senza indugio
alcuno. Non so nemmeno come siano i suoi occhi, pensa l’uomo.
Poi, posata una mano sul ginocchio dei pantaloni, dopo uno sguardo di
verifica al sonno degli altri tre passeggeri, fingendo di sistemarli
dove sono tesi nella piega sfiora il ginocchio di lei, di fronte al suo,
con le dita della mano.
Non guarda lei ma il suo compagno cieco che lo fissa con quegli occhiali
neri, quel vuoto inquietante dello sguardo, mentre la mano si posa ora
sulla gamba della donna. E’ come incatenato a quello sguardo vuoto,
mentre la mano sale sulla coscia sconosciuta. Carezza fin dove riesce ad
arrivare.
Il treno frena.
Quasi bruscamente, comincia a rallentare.
Si svegliano simultaneamente.
I due anziani e il cieco. Loro si mettono i cappotti, prendono i loro
bagagli, salutano e vanno verso la porta del vagone. Sono arrivati al
paese ove vivono da sempre, dopo esser stati in visita in città un
giorno solo, che due non li reggerebbero, per l’amordiddio, a loro
figlia.
Lei si ricompone come se nulla fosse accaduto, carezza l’uomo seduto di
fianco, sposta le gambe per far passare i due che stanno uscendo.
Ha posato il giornale sul sedile.
Prima che il treno riparta parla a lui, che giocherella con le mani sul
manico sottile del bastone.
“Ti secca se mi siedo dall’altro lato, davanti? Andare contro direzione
di marcia mi da fastidio, quando leggo, amore” e mentre il cieco le
carezza il ginocchio e la rassicura, che tanto lui ha ancora voglia di
dormire, lei si alza e va a sedere di fianco al ragazzo con la dolcevita
nera, proprio di fronte all’uomo col bastone.
Al ripartire del treno ora lei gli è di fianco. Sono rimasti loro tre
soli.
Non è salito nessun altro viaggiatore.
S. non ha nemmeno incrociato lo sguardo con lui quando si è alzata e ha
cambiato posto, come se nemmeno lui ci fosse o lei l’avesse anche solo
visto. Ha preso posto, accomodandosi, sul sedile ancora freddo, l’unico
sempre rimasto vuoto sino a quel momento.
Sedendosi, ha fatto scorrere le tendine ai vetri della porta dello
scompartimento che ha tirato fino a accostare, chiusa. Dondolano ora, le
tendine grigie con la scritta effeesse, ai primi movimenti incerti nel
salire della velocità sui binari, al passaggio di traversine e giunti. E
lei, seuta, appoggia la testa indietro al poggiatesta, e chiude gli
occhi.
La mano del ragazzo non tarda a farsi sentire. Appena all’orlo della
gonna.
Il palmo caldo sulla coscia, posato quasi con noncuranza. Solo il calore
della mano tradisce l’emozione di quel gesto del ragazzo. E la pausa
prima di proseguire e risalire ancora, la paura di avere paradossalmente
frainteso tutto e magari andare incontro a un guaio. S. però non parla,
non si volta nemmeno a guardarlo. Non reagisce se non respirando
leggermente più forte, alla sorpresa iniziale di quel contatto.
“Sì, fa caldo, troppo caldo, se solo passasse il controllore potresti
dirgli di abbassare il riscaldamento per favore, che è davvero troppo
forte” sbotta D., innervosito, seduto lì davanti. E il ragazzo ha come
un soprassalto. Come se fosse stato scoperto a rubare la marmellata dal
vasetto.
Fa per ritrarre la mano, ma questa volta è lei, S. che lo ferma, posando
la sua su quella che sta per lasciare la sua coscia, fuggendo. Si volta
e lo guarda, tenendo ferma la mano sotto la sua.
Lo guarda per la prima volta. Fisso negli occhi, senza abbassare lo
sguardo.
Sguardo da troia, pensa il ragazzo.
Poi allenta la pressione della mano e si lascia scivolare un po’ più
avanti sul sedile, scoprendosi le cosce quasi completamente dalla gonna,
e invitando così la mano a nascondercisi sotto.
“Se vedo un controllore passare in corridoio, lo fermo e glielo chiedo,
amore” risponde lei, incongruente, che con le tendine chiuse nemmeno se
passasse mille volte lo vedrebbe. E mentre parla, stando attenta a non
urtare i piedi di D. che le è seduto avanti allarga più che può le
cosce.
La mano è risalita carezzando l’interno della coscia, fresca, oltre
l’orlo della calza, e ora indugia proprio dove ha scoperto al tatto
quello che avevano solo intuito gli occhi e cioè che la donna
sconosciuta non indossa intimo sotto la gonna. Si bagna la punta delle
dita, trovandola così gonfia e umida da non riuscire a trattenere una
carezza che, da sotto a sopra ne percorre lo spacco senza forzarlo.
Guarda la donna che a occhi chiusi punta i piedi a terra spingendosi con
quelli quasi volesse sollevarsi.
Comincia lentamente a masturbarla.
Carezza piano, pressa, bagna un dito e sale fino al punto più nascosto,
lì in alto, che sfiora con le dita umide pianissimo, quasi impastandolo
in modo impercettibile, pasta di pane morbida, che assorbe il tatto che
la ruota mollemente. Anche la paura e la prudenza di essere scoperto
dall’uomo seduto davanti a lei vacillano adesso. Accenna ad aprire la
bocca per parlare ed è lei a posare le dita della mano sulle sue labbra
per imporgli il silenzio adesso. Con gli occhi solamente, gli dice
continua.
Sembra pregarlo di farlo tanto si sono fatti lucidi gli occhi di S.
adesso, al crescere dell’eccitazione e dell’esplorazione delle dita nel
suo sesso. Lui continua, carezza, scende sale e ricomincia come se
volesse man mano consumarla.
E ad ogni risalita le dita si bagnano di più e le labbra cedono da sole
scostandosi e lasciandolo insinuare tra di loro pienamente adesso. Lei
ha gli occhi chiusi.
La testa spinta indietro al poggiatesta coperto dal piccolo telo bianco.
I piedi puntati a terra.
E’ quasi sollevata sul sedile mentre lui entra con le dita, uno, poi
due, il pollice sul clitoride, il braccio quasi torto per raggiungerla
così, al massimo di quanto gli consentano e dita e il fatto di esserle
seduto a fianco. La scopa con le dita. Facendolo cerca di spingersi
verso il culo, ma non ci arriva con le dita e lascia perdere allora,
concentrandosi solo su taglio e sulla grotta umida, cedevole, avvolgente
e mostosa e così calda.
Sembra che nessuno dei quasi respiri più adesso.
L’uomo che non vede, di fronte a loro, deve avere una qualche sua musica
in testa, perché batte leggermente a terra, su un ritmo tutto suo, con
la punta del bastone tenuto in mezzo alle ginocchia.
Il ragazzo la sente inarcarsi e quasi sollevarsi, e istintivamente ferma
le dita dentro. Gli sembra che lei sia senza peso, sollevata a mezz’aria
sul sedile, in quel momento, che a lui, le dita affogate nella fica,
sembra eterno.
Poi lei ricade schiacciandogli le dita il polso, e comincia un’onda di
respiri forti, profondi, una marea muta a gonfiarle il petto, col
respiro, dentro la camicetta tesa sul seno.
Le dita scivolano fuori. Sono lucide.
Il ragazzo non può fare ameno di guardarsele, quasi stupito, quasi fosse
la prima volta che le vede. Le sue dita.
Fa appena a tempo a riprendere la sua posizione sul sedile che all’uomo
lì di fronte cade il bastone proprio sulle sue ginocchia. Ha un
soprassalto quando lo vede sporgersi e cercarlo, gli occhi vuoti dietro
i vetri scuri, a tentoni, toccandogli il ginocchio e poi la coscia.
Prende il bastone che è scivolato tra le cosce, dove i jeans non celano
affatto la sua eccitazione insoddisfatta. E glielo porge aiutando la
mano che è in cerca, in tutta fretta.
“Eccolo” dice con la voce che gli fatica a uscire.
“Grazie, senza di lui” afferra il bastone tenendo la mano del ragazzo
nella sua “ e di lei” e indica con la mano oscillante a mezz’aria in
direzione di S. “io sarei un uomo perso. Sono loro. I miei occhi.”
“Ma non lo sente anche lei che c’è un odore strano, quasi un profumo,
direi, su questo treno?”
“Ma tu non lo senti, cara? “
“Non è possibile che lo senta solo io…” aggiunge, scuotendo il capo e
dondolando lievemente la punta del bastone recuperato, a pochi
centimetri da terra, non avendo avuto a loro risposta.
Alla fermata dopo D. e S. scendono dal treno.
Salutano il passeggero che rimane nel vagone con le cordialità e i
commiati di rito quando si lascia uno scompartimento.
Il ragazzo accenna a fermare S. Vorrebbe chiederle di lasciargli un
numero di telefono o un modo per rintracciarla, mentre lei recupera la
borsetta dalla cappelliera. Lei gli fa segno di no con le dita.
Lui allora scrive sul suo biglietto ferroviario, in tutta fretta Sandro
e un numero di cellulare e approfittando che lei è in piedi glielo
infila nella tasca della giacca velocemente.
“Arrivederci”
“Buona prosecuzione” “Buon viaggio” e si chiude il rito come succede in
mille città, in mille treni, mille vagoni, mille scompartimenti ogni
giorno di ogni settimana, mese, anno.
S. aiuta D. che uscendo quasi colpisce col bastone il ragazzo in faccia,
sfiorandogli pericolosamente un occhio con la punta, inciampando.
Lo prende per mano mentre scende i tre scomodi gradini e poi
sottobraccio.
Poi, al marciapiede, mentre il treno ancora sosta e il ragazzo li guarda
dietro il vetro chiuso del finestrino, lei scoppia a ridere.
Gli sfila gli occhiali scuri e lo bacia infilandogli la lingua in gola
fino a quasi soffocarlo.
D. non le da soddisfazione, ripiega il bastone nei suoi quattro pezzi e
glielo porge. Perché lei lo riponga, con gli occhiali comprati insieme
tre giorni prima dall’oculista di via Verdi, dentro la sua enorme
borsetta di Furla.
“Sono stata troia abbastanza? O lo spettacolino non ti ha soddisfatto?”
lei ride come una bambina e gli si aggrappa coi pugni alla giacca,
sorridendogli come un’adolescente innamorata, tirandolo a sé per un
altro bacio.
“Dillo che sono stata bravissima” per gioco si impunta e fa i capricci
“Anche tu come attore però sei molto meglio di come ti immaginassi”.
“Però devo dirtelo che con le dita era bravissimo anche lui, quando gli
hai toccato la mano per riprendere il bastone devi essertene reso conto
di come gliele ho lasciate fradice, e tu bastardo che hai fatto cadere
il bastone solo per sincerartene e metterlo in imbarazzo, stavo per
scoppiargli a ridere in faccia quando gli hai preso la mano tra le tue…”
“ A proposito, mi ha lasciato il suo nome e il suo telefono” e tira
fuori il biglietto accartocciato alla tasca” e quasi quasi io….” e ride,
facendogli le smorfie, dopo aver fatto finta di piegarlo meglio e
riporlo in tasca, accartocciandolo e buttandolo nel cestino.
Lui la prende con un braccio sotto la vita e camminano verso la fine del
binario abbracciati.
“In fin dei conti lui poveretto nemmeno se l’è goduto e te lo sei goduto
solo tu il mio orgasmo. Dillo che ti ha eccitato e ti è piaciuto,
vedermi troia in quel modo davanti ai tuoi occhi, amore mio vizioso…”
dice baciandolo e costringendolo a fermarsi.
“Portami dove vuoi adesso, ma andiamo a fare l’amore da qualche parte
subito, ora, perché l’aperitivo a me ha fatto venire voglia. E anche a
te” gli sfiora i pantaloni con la punta delle dita ”direi, se quel che
sento non è il tuo portafoglio… “
“Essì. Anzi, prendiamo il primo treno che ci riporti a casa, ma
cerchiamoci uno scompartimento vuoto questa volta” replica D,,
strizzandole l’occhio e ridendo “che mi sono venute idee su come
trascorrere il viaggio di ritorno” e ridacchia, mettendole la mano sul
sedere, sulla gonna.
“Ma sia ben chiaro che la prossima volta scegliamo una ragazza e sei tu
che fai la cieca, se no mica è giusto…”
Ridono, e vanno abbracciati a vedere insieme sotto l’androne da quale
binario e dopo quanti minuti comincerà per loro il viaggio di ritorno.
In uno scompartimento vuoto, con la porta accostata e le tendine tirate
e chiuse.
Un treno locale, come quello dell’andata.
Vecchio, con le foto di un’Italia che non c’è più appese sopra i sedili
di velluto. Un treno locale. Felicemente lento.
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